Cosa ci spinge a scrivere, danzare, fotografare? A cosa ci serve? La capacità di produrre segni accomuna gli uomini e li rende simili al di là delle lingue, delle etnie, delle religioni e delle appartenenze territoriali. Nel visual abbiamo inserito la lettera “waw”, che significa “gancio”: è la congiunzione tra elementi molteplici e anche opposti. E’ un segno per noi tutto da scoprire. Vogliamo porre l’attenzione sul momento primordiale e puro, ancestrale, relativo al segno: un gesto semplice, istintivo, che però stiamo imparando a dare per scontato, oppure a caricare di roba inutile. L’uomo che scrive o dipinge non è l’artista, l’intellettuale, né il personaggio per qualche tempo famoso; è sempre e prima di tutto un uomo. Chi dice al bambino di scarabocchiare sul muro, o disegnare sul vetro appannato? L’opera artistica deve tornare a vivere nell’atto della necessità, non del momento della sua distribuzione al pubblico. Prima di chiederti perché lo stai facendo, lo fai. Perché è un mistero, è assurdo e meraviglioso e ti riempie (o ti svuota). La condizione di necessità si perde quando ci facciamo soffocare dalle sovrastrutture, quando siamo sedati dalla giostra mediatica e ci allontaniamo dall’umano.
A cosa serve, oggi, fare un Festival come il nostro? È ancora possibile farlo, nonostante i dolori, i rischi e le rivendicazioni che si levano al di là e al di qua del Mediterraneo? Sì. Ci attacchiamo a questo che pare inutile, eppure ci salva e ci rende uguali. Abbiamo bisogno di credere nel potere della parola, del segno, sopra ogni atrocità, al di là di ogni difficoltà.
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